Dichiarazione della Comunità Internazionale Bahá’í
sulla libertà di religione e di credo1 Oltre cinquant’anni fa, la Dichiarazione universale dei diritti umani ha coraggiosamente proclamato l’intrinseca dignità e i pari diritti di tutti i membri della famiglia umana. Guidata dalla visione dell’uguaglianza di tutti, la Dichiarazione comprende il diritto fondamentale di ogni persona alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Malgrado la comunità internazionale abbia adottato all’una-nimità1 questa Dichiarazione e l’abbia successivamente codificata in strumenti di legge internazionale,2 il mondo è testimone di persistenti intolleranze e discriminazioni fondate sulla religione e sul credo, della proliferazione della violenza in nome della religione, della manipolazione della religione nell’intereresse dell’ideologia politica e si una crescente tensione fra la religione e le politiche statuali.3 La crescente ondata di estremismo religioso ha alimentato questi eventi, minacciando la sicurezza, lo sviluppo umano e gli sforzi per la pace. La diffusa violazione di questo diritto – spesso mirata verso le donne e le minoranze – è proseguita. Data l’interdipendenza dei diritti umani, queste violazioni hanno coinvolto, fra l’altro, anche il diritto all’educazione, all’impiego, alle riunioni pacifiche, alla cittadinanza, alla partecipazione politica, alla salute e talvolta alla vita stessa. In effetti, la promessa della libertà religiosa o di credo per tutti resta uno dei diritti umani contestati e pressanti del nostro tempo.
2 La libertà di seguire un credo di propria scelta e di cambiarlo occupa una posizione centrale nello sviluppo umano, in quanto consente all’indi-viduo di cercare un senso, un impulso tipico della coscienza umana. Pertanto, la Comunità Internazionale Bahá’í ap-prezza gli sforzi recentemente compiuti delle Nazioni Unite per includere la libertà religiosa e culturale nella propria struttura concettuale e nella propria valu-tazione dello sviluppo umano.4 Altrettanto significativa è stata l’affermazione da parte delle Nazioni Unite degli stretti legami esistenti fra sviluppo, sicurezza e diritti umani e libertà fondamentali,5 cosa che ha aperto la strada a un onesto riesame del ruolo della libertà di pensiero, di coscienza e di religione nel perseguimento di una società pacifica, florida e giusta.
3 In quanto comunità religiosa mondiale che ritiene sacra la coscienza umana e che sostiene l’indipendente ricerca personale della verità, noi raccomandiamo alle Na-zioni Unite di prendere seriamente in considerazione quattro punti critici eppure trascurati relativi al diritto alla libertà di religione e di credo: (1) il diritto di cambiare religione e credo, (2) il diritto di parlare con gli altri del proprio credo, (3) le responsabilità della comunità internazionale e dei governi nazionali nei confronti delle comunità religiose pacificamente organizzate ed emarginate e (4) le responsabilità dei capi religiosi nei confronti della promozione e della protezione del diritto alla libertà di religione e di credo. Ci occuperemo di questi temi uno per volta e concluderemo con le nostre raccomandazioni per il lavoro delle Nazioni Unite in questo ambito.
14 La Dichiarazione universale dei diritti umani afferma esplicitamente nell’articolo 18 che
ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nel-l’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osser-vanza dei riti.6
Al diritto di cambiare religione e credo è concesso lo status di diritto inderogabile – un diritto protetto senza condizioni, che non può mai essere soggetto a rego-lamentazione governativa.7 La speciale protezione concessa a questo diritto ne rispecchia la posizione nella salva-guardia della dignità dell’essere umano. In verità, la ricerca personale della verità e del significato è un’attività intimamente legata alla coscienza umana e al desiderio di vedere il mondo con i propri occhi e di capirlo con le proprie facoltà percettive e con la propria intelligenza. Pertanto esso è inestricabilmente legato a tutti gli aspetti dello sviluppo umano.
5 Ma, a causa delle pressioni esercitate da Stati dissenzienti, successivi trattati delle Nazioni Unite hanno usato un linguaggio più debole per definire questo diritto, disattendendo l’inequi-vocabile criterio stabilito dalla Dichia-razione.8 Neppure la Dichiarazione sul-l’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione basata sulla religione e sul credo varata dall’Assemblea generale nel 1981 afferma esplicitamente il diritto di cambiare religione o credo.9 In quella che è forse la più ampia formulazione del diritto a tutt’oggi, il Comitato per i diritti umani ha identificato la libertà di cambiare religione o credo, la libertà di manifestare il proprio credo, la non coercizione nel campo della religione e la non discriminazione in base alla religione come componenti essenziali di questo diritto previsto nella Dichiarazione.10 Di pari passo con la giurisprudenza delle Nazioni Unite, diversi convegni e incontri globali negli ultimi quindici anni hanno generato un pressoché universale impegno a promuovere e rispettare la libertà di religione e di credo.11 In quanto firmatari della Dichiarazione universale e dei successivi trattati e impegni globali, i governi hanno la responsabilità primaria di creare, salvaguardare e promuovere le condizioni necessarie perché tutti i loro cittadini godano della libertà di coscienza, di religione e di credo.
Il diritto di insegnare6 Strettamente legata alla libertà di avere una religione o un credo e di cambiarli è la libertà di parlarne con altri. Fra le molte attività potenzialmente comprese nella libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo, il diritto di insegnarli è stato particolarmente controverso.12 Mentre la Dichiarazione chiede l’incondizionata protezione del diritto «interno» alla libertà di religione, il diritto «esterno» di manifestare le proprie convinzioni è soggetto a restrizioni. I governi hanno la libertà di applicare restrizioni a questo diritto allo scopo di «rispondere a giusti requisiti di moralità, ordine pubblico e benessere comune in una società democratica».13 Ma questa libertà d’iniziativa concessa agli Stati è stata spesso abusata nello sforzo di reprimere popolazioni minoritarie e ha sollevato quesiti su che cosa si intenda per legittima interferenza governativa nelle manifestazioni della religione o del credo.
7 Alcuni stati sostengono che la restrizione dell’in-segnamento delle religioni e della condivisione delle credenze è necessaria alla preservazione di particolari tradizioni e alla protezione dei diritti delle popolazioni interessate. Ma il diritto alla libertà di religione o di credo dipende inevitabilmente dall’esposizione a nuove idee e dalla capacità di dare e ricevere informazioni.14 Le restrizioni basate sul «mantenimento dell’ordine pubblico» e della «moralità» sono state applicate con notevole libertà e in modo incongruente con il principio della non discriminazione.15 In particolare gli Stati non democratici e teocratici sono ripetutamente ricorsi a riserve di questo genere senza l’appoggio di alcuna prova, suscitando interrogativi non solo sulla loro interpretazione di questo diritto ma anche sulla loro protezione dei diritti e delle libertà ad esso collegate, come il diritto all’impiego e all’educazione e la libertà di parola e di associazione pacifica, per citarne solo alcune.16 Sebbene la possibilità di porre restrizioni sulla libertà di religione e di credo possa trovare importanti applicazioni, gli abusi di queste restrizioni perpetrati dagli Stati non fanno altro che esacerbare l’emarginazione delle minoranze oppresse.
8 La protezione della libertà di religione e di credo deve anche comportare che si vigili per proteggere i cittadini dalle forze degli estremismi dell’ortodossia. L’incitamento alla violenza, l’estremismo e l’ostilità in nome della religione devono essere energicamente sanzionati e drasti-camente condannati.17 Inoltre, gli Stati devono costantemente soste-nere la parità fra donne e uomini in quanto principio morale e articolo della legge internazionale, condannando ogni azione compiuta in nome della religione che neghi alle donne dignità umana e libertà di coscienza. Infine, una strategia preventiva a lungo termine deve fondarsi sullo sforzo di educare tanto i bambini quanto gli adulti, insegnando loro a leggere e scrivere e offrendo l’opportunità di conoscere meglio gli altri sistemi di credenze. In una cultura dell’educazione, le persone che sanno leggere gli scritti della propria religione e quelli delle altre, che sono liberi di fare domande e di discutere e che sono in grado di partecipare alla generazione e all’applicazione del sapere sono più preparate a combattere le forze dell’ignoranza e del fanatismo.18
Le minoranze religiose emarginate9 Un ulteriore problema per gli Stati odierni è il mantenimento della coesione sociale e dell’unità nazionale di fronte al crescente pluralismo culturale e religioso. Spesso, la minaccia dell’instabilità sociale e della protesta violenta è la principale ragione per cui uno Stato decide di accedere alle rivendicazioni delle minoranze. Infatti quando cercano riparazione i gruppi emarginati possono diven-tare violenti e costringere gli stati ad occuparsi delle loro riven-dicazioni per prevenire tensioni sociali e potenziali minacce alla sicurezza nazionale. Ma questo modo di agire per reazione favorisce un modello pericoloso e di per sé incoraggia la violenza, soprattutto quando i gruppi pacificamente organizzati vedono le proprie richieste ripetutamente ignorate. Esso aumenta il livello della discriminazione perché i gruppi si ritrovano esclusi in base alla religione e ignorati a causa del loro modo non violento di cercare soddisfazione.
10 Pertanto le azioni degli Stati devono superare le considerazioni puramente materiali e pratiche e lasciarsi guidare dalla forza dei principi morali e dalle norme della legge. Il più importante di questi principi è l’unità, a livello locale, nazionale e globale, fondato sul pacifico accomodamento della diversità culturale. Gli Stati devono abbandonare la nozione obsoleta che l’omogeneità culturale e l’uniformità ideologica garantiscono la pace e la sicurezza e arrivare ad accettare che la pluralità di identità e di credenze, riunite sotto l’egida di leggi giuste e di diritti umani universali, è la base di una società fiorente e unificata.
I capi religiosi11 La responsabilità di sostenere il principio universale della libertà di religione e di credo non è solo degli Stati, ma anche dei capi religiosi. In un mondo tormentato dalla violenza e dal conflitto in nome della religione, i capi delle comunità religiosa hanno la gravissima responsabilità di guidare i loro seguaci verso una coesistenza pacifica e una reciproca comprensione con chi pensa e crede diversamente. Troppo spesso chi agisce in nome della religione ha attizzato le fiamme dell’odio e del fanatismo, diventando lui stesso il più grande ostacolo nella via della pace. Malgrado questa dolorosa verità, affermiamo che le religioni e le fedi del mondo con le quali la maggior parte degli abitanti della terra si identifica hanno lasciato un’immensa eredità spirituale, morale e culturale, che continua ad essere di aiuto e di guida in questi tempi travagliati. In verità, le religioni hanno toccato le radici della motivazione umana sollevando la nostra visione al di sopra di concezioni della realtà puramente materiali fino ad abbracciare più alte nozioni di giustizia, riconciliazione, amore e abnegazione al servizio del bene comune.
12 Data l’importanza della cultura e della religione nella modulazione delle motivazioni e del comportamento, è chiaro che da soli i meccanismi legali non sono in grado di produrre la dedizione e la reciproca comprensione necessarie a sostenere la cultura della coesistenza pacifica. È impossibile sopravvalutare il ruolo dei capi religiosi come partner, nelle parole e nei fatti, nella creazione della cultura del rispetto della libertà umana e della libertà di coscienza, di religione o di credo. Le forze della storia sfidano oggi ogni persona di fede a identificare nelle proprie scritture e nelle proprie tradizioni principi spirituali che rispondano ai difficili inter-rogativi posti da un’era assetata di unità e giustizia nelle cose umane. In questa impresa comune, basata sul concetto dell’intrinseca dignità, ragionevolezza e coscienza di ogni essere umano, i capi religiosi de-vono sostenere la sacralità della coscienza umana e accordare incon-dizionatamente a ogni individuo la libertà di cercare la verità.
Raccomandazioni13 Facciamo appello alle Nazioni Unite perché affermino con parole inequivocabili che secondo la legge internazionale ogni persona ha il diritto di cambiare religione. In base all’articolo 96 dello Statuto delle Nazioni Unite, l’As-semblea generale può chiedere al Tribunale internazionale di espri-mere un parere consultivo sul tema della libertà di religione o di credo. Specificamente si dovrebbe chie-dere al Tribunale se il principio del-la libertà di religione e di credo rientra nell’ambito dello jus cogens, la legge consuetudinaria internazionale, o se è semplicemente un fatto lasciato all’in-terpretazione degli Stati. Questo chiarimento aiuterebbe a eliminare le interpretazioni erronee di questo diritto e a dare una forza morale alla condanna delle politiche e delle prassi che violano il principio della non discriminazione del credo religioso.
14 A questo chiarimento devono seguire azioni concrete, investigative, legali e operative. Primo, è necessario compiere ricerche e analisi per chiarire quali sono i livelli minimi di adesione alla legge internazionale e per elaborare indicatori, che determinino la presenza o l’assenza della libertà di religione e di credo. Un rapporto mondiale annuale, redatto dalle Nazioni Unite, che valuti lo stato di questa libertà nel mondo fornirebbe altro materiale e faciliterebbe i confronti nel corso del tempo e fra le varie regioni geografiche.19
15 Le Nazioni Unite devono occuparsi in modo completo e definitivo del-l’estremismo religioso come grande ostacolo nei processi della pace.20 Le Nazioni Uni-te hanno denunciato l’intol-leranza e la persecuzione religiosa, ma sono state restie a riconoscere e condannare energicamente l’estremismo religioso che produce violenza e atti ter-roristici.21 Poiché il peso dell’e-stremismo religioso e delle con-seguenti violazioni delle libertà uma-ne spesso ricade soprattutto sulle donne, il Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di redigere un commento sugli aspetti specifici della libertà di religione o di credo delle donne.22
16 Appoggiamo la creazione di un Consiglio per i diritti umani che ristabilisca il primato dei diritti umani secondo le disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite Inoltre, l’Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani dovrebbe prendere provvedimenti per rafforzare il ruolo del Relatore speciale sulla libertà di religione, aumentando i finanziamenti del suo mandato in modo da consentire una più stretta vigilanza delle tendenze tanto nel mondo quanto nei vari paesi.23 Poiché il mandato del Relatore speciale è uno degli strumenti principali per portare le questioni della libertà religiosa all’attenzione delle Nazioni Unite, raccomandiamo una maggior cura nell’applicazione delle raccomandazioni presentate dal Relatore. L’Alto commissario potrebbe prendere in considerazione la possibilità di allargare il mandato del Relatore speciale da un semplice rapporto sulle violazioni a un rapporto anche sugli sforzi compiuti dagli stati per applicare le sue raccomandazioni. In generale, i rapporti del relatore trarrebbero un grande giovamento da un dibattito più sostanzioso e interattivo fra il relatore e gli Stati in oggetto. Da parte loro, oltre a collaborare con il meccanismo delle Nazioni Unite per i diritti umani, gli Stati dovrebbero concedere al Relatore speciale la facoltà di fare tutte le visite che ritiene opportuno richiedere e di sforzarsi di soddisfare ogni suo bisogno ai fini delle sue indagini.
17 Riconoscendo l’interdipendenza della libertà, dello sviluppo e della sicurezza nel mondo d’oggi, le Nazioni Unite hanno aperto la strada a un prov-videnziale riesame del diritto universale alla libertà di religione o di credo, del suo ruolo nello sviluppo umano e degli strumenti per proteggerlo. Nel tentativo di stimolare un utile dibattito e la necessaria azione, abbiamo posto sul tappeto i criteri della parità formulati nella Dichiarazione universale dei diritti umani e le sue impli-cazioni sull’elaborazione di una cultura rispettosa della dignità e della coscienza di ogni essere umano. Crediamo che la protezione del diritto alla libertà di coscienza, di religione o di credo non sia semplicemente un esercizio legale o una necessità pragmatica, ma che sia parte del-l’impresa più ampia ed essenzialmente spirituale di elaborare atteggiamenti e prassi che consentano al potenziale umano di emergere e di fiorire. La mente umana, dotata di ragione e di coscienza, deve essere libera di cercare la verità e di credere.
1 Universal Declaration of Human Rights [Dichiarazione universale dei diritti umani], documento ONU A/810 at 71 (1948). New York: United Nations. La Dichiarazione è stata adottata senza voti dissenzienti con l’astensione di otto paesi: Bielorussia, Cecoslovacchia, Polonia, Arabia Saudita, Sud Africa, Unione Sovietica, Ucraina e Jugoslavia.
2 Non meno di 28 strumenti internazionali per i diritti umani contengono provvedimenti specifici riguardanti la libertà di religione e di credo.
3 Civil and Political Rights, Including Religious Intolerance: Report submitted by Mr. Abdelfattah Amor, Special Rapporteur, in accordance with Commission on Human Rights resolution 1998/18 [Diritti civili e politici, compresa l’intolleranza religiosa. Rapporto presentato dal Relatore speciale, signor Abdelfattah Amor, secondo la risoluzione 1918/18 della Commissione per i diritti umani], documento ONU E/CN.4/1999/58 (1999).
4 Il Rapporto sullo sviluppo umano del Programma ONU per lo sviluppo del 2004 intitolato «La libertà di cultura nell’attuale mondo diversificato» ha riconosciuto, per la prima volta nei quindici anni di storia del Rapporto, che la libertà di cultura è una «parte vitale dello sviluppo umano» e ha affermato la «profonda importanza della religione ai fini dell’identità personale». È significativo che l’analisi dello sviluppo umano nei Rapporti sullo sviluppo umano abbia virato da un’impostazione prevalentemente materialistica incentrata sul benessere e sul reddito verso l’inclusione del concetto di sviluppo come espansione delle libertà umane. Altrettanto importante è stata la diffusione dei Rapporti del programma annuale per lo sviluppo arabo, un’opera pionieristica per gli studiosi arabi in questo campo. Il noto Rapporto del 2002 afferma che la libertà è «garante e obiettivo» dello sviluppo umano e dei diritti umani, scegliendo la libertà come il primo requisito per lo sviluppo nel mondo arabo. Il Rapporto del 2004, che discute le carenze della libertà e del buon governo in quella parte di mondo, esamina le strutture religiose, legali e politiche che ostacolano le libertà umane e chiede un intervento immediato per affrontare la questione prioritaria di «porre fine a ogni forma di discriminazione contro i gruppi minoritari».
5 2005 World Summit Outcome [Risultati del Vertice mondiale del 2005], documento ONU. A/60/L.1
6 Dichiarazione universale dei diritti umani, articolo 18, comma 1.
7 Un diritto inderogabile non è soggetto a regolamentazione governativa, neppure in tempi di emergenza nazionale.
8 La libertà di cambiare religione o credo non è stata espressa con altrettanta chiarezza in nessuno degli strumenti internazionali successivi alla Dichiarazione. Per esempio il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966) prevede che l’individuo sia libero di «avere o adottare una religione o un credo di sua scelta». Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966) garantisce la possibilità di esercitare i diritti previsti dal Patto «senza alcuna discriminazione di… religione». La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (1979) invita gli Stati che ne fanno parte a prendere tutte i provvedimenti necessari per garantire alle donne «l’esercizio e il godimento dei diritti umani e delle libertà fondamentali su una base di parità rispetto agli uomini». La Convenzione sui diritti dell’infanzia (1989) afferma che il bambino ha diritto alla «libertà di pensiero, coscienza e religione». La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine del genocidio (1948) include nella definizione di genocidio «atti commessi nell’intento di distruggere… un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Alcuni trattati regionali, come la Convenzione americana sui diritti umani (1969) e la Convenzione europea sui diritti umani (1950) prevedono esplicitamente la libertà di cambiare religione o credo.
9 Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione basata sulla religione e sul credo, documento ONU A/36/684 (1981). La Dichiarazione riconosce la «libertà di avere una religione o un credo di propria scelta, la libertà di manifestare, individualmente o in comunità con altri, in pubblico e in privato, la propria religione o il proprio credo in atti di culto, in osservanze, nella pratica e nell’insegnamento». Malauguratamente questa Dichiarazione non ha ancora conseguito lo status di un Patto legalmente vincolante.
10 Human Rights Committee, General Comment 22, Article 18 [Comitato per i diritti umani, Commento generale, articolo 18], documento ONU HRIGEN1Rev.1 at 35 (1994). Fra le componenti fondamentali di questo diritto vi sono anche i diritti parentali, lo status legale, i limiti sulle restrizioni consentite ai governi e l’inderogabilità.
11 Fra i convegni globali, le Dichiarazioni e i programmi di azione che hanno affermato la libertà di religione o di credo vi sono: la Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione basata sulla religione e sul credo (1981), la Dichiarazione e programma di azione di Vienna (1993), la Dichiarazione e programma di azione di Copenaghen (1995), la Dichiarazione delle Nazioni Unite del Millennio (2000), il Vertice del millennio per la pace mondiale – Impegno per la pace globale (2000), la Dichiarazione e programma di azione di Durban (2001).
12 Il General Comment 22 [XXII Commento generale] (comma 10) afferma che «la pratica o l’insegnamento di una religione o di un credo includono gli atti necessari ai gruppi religiosi per condurre i loro affari fondamentali, come la libertà di scegliere i capi religiosi, i preti e gli insegnanti, la libertà di istituire seminari o scuole religiose e la libertà di redigere e distribuire testi o pubblicazioni religiosi». La Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di intolleranza e discriminazione basata sulla religione e sul credo del 1981 prevede esplicitamente il diritto di insegnare la propria religione.
13 Dichiarazione universale dei diritti umani, articolo 29, comma 1. Anche il Patto internazionale sui diritti civili e politici prevede le «restrizioni contemplate dalla legge e che siano necessarie per la tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico e della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali» (articolo 18).
14 Un cambiamento di identità dovuto a una conversione non costituisce una violazione dei diritti umani personali. È invece il desiderio di mantenere la propria identità che richiede una protezione legale. Analogamente, gli Stati non possono ricorrere alla logica di preservare particolari tradizioni, religioni o ideologie per giustificare restrizioni della libertà di religione o di credo.
15 Le restrizioni in base alla volontà di preservare la «moralità» sono le più controverse e si prestano ad abusi, perché è possibile utilizzare i propri principi morali basati su una religione per prevaricare il credo religioso altrui. Il XXII Commento generale del Comitato per i diritti umani asserisce che «le restrizioni della protezione della libertà di religione e di credo non devono basarsi su principi derivati da un’unica tradizione» (comma 10).
16 Alcuni Stati hanno avanzato riserve generali su intere Convenzioni basandosi sull’applicazione statuale della legge religiosa. Ciò è incompatibile con l’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che prevede «restrizioni contemplate dalla legge e che siano necessarie per la tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico e della sanità pubblica, della morale pubblica o degli altrui diritti e libertà fondamentali». Inoltre, nel suo Commento generale sull’articolo 18 dell’ICCPR, il Comitato per i diritti umani annota che ogni restrizione sulla libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo «deve basarsi su principi che non derivino esclusivamente da unica tradizione».
17 l Patto internazionale sui diritti civili e politici proibisce «qualsiasi appello all’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza». Inoltre, secondo le richieste della Convenzione contro la discriminazione nell’educazione (1960) dell’Organizzazione Culturale Scientifica e Educativa delle Nazioni Unite (UNESCO), gli Stati devono condannare e sanzionare risolutamente coloro che, in nome della religione, usano l’educazione e i media per reprimere la libertà di coscienza e promuovere divisioni, odio, terrorismo, violenze e uccisioni.
18 L’ex Relatore speciale sulla libertà di religione e di credo, Abdelfattah Amor, ha affermato che l’educazione – in particolare l’educazione ai diritti umani – è una componente fondamentale per costruire una cultura di tolleranza e non discriminazione. Il signor Amor ha indetto il Convegno consultivo internazionale dell’educazione scolastica alla libertà di religione e di credo, alla tolleranza e alla non discriminazione del 2001 e ha chiesto ai partecipanti di progettare una strategia educativa mondiale per combattere l’intolleranza e la discriminazione basate sulla religione e sul credo (documento ONU E/CN.4/1999/58).
19 Civil and Political Rights, Including Religious Intolerance [Diritti civili e politici, compresa l’intolleranza religiosa], comma 3.
20 Ibidem 125 (a).21 Le Nazioni Unite hanno esitato ad affermare che il fanatismo religioso è una sorgente del terrorismo, limitandosi ad accenni indiretti, come per esempio, «il terrorismo motivato da intolleranza o estremismo» (S/RES/1373 [2001]). Neppure le varie risoluzioni pronunciate dal Consiglio di sicurezza, dall’Assemblea generale e dalla Commissione per i diritti umani dopo le azioni terroristiche dell’11 settembre 2001 hanno identificato nel fanatismo religioso la forza che le ha alimentate.
22 Tahzib-Lie, Bahia G. (2004). «Dissenting Women, Religion or Belief, and the State: Contemporary Challenges that Require Attention [Donne, religione o credo dissenzienti e lo Stato: problemi contemporanei che meritano attenzione]», in Lindholm, T., Durham, W. Cole Jr., Tahzib-Lie, Bahia G. (a cura di) Facilitating Freedom of Religion or Belief: A Deskbook [Per facilitare la libertà di religione o di credo]. Martinus Nijhoff Publishers, Oslo, Norvegia.
23 Solo una piccola parte degli stati membri sono stati sottoposti a vigilanza per l’adesione agli articoli della Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e discriminazione basate sulla religione e sul credo del 1981.
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